Oramai l’utilizzo sempre più diffuso degli smartphone ha reso agevole registrare le conversazioni al lavoro tra colleghi o con i superiori gerarchici. Ciò può assumere particolare rilievo soprattutto quando un lavoratore reputi di essere vittima di ingiustizie sul posto di lavoro.
Ad esempio potrebbero presentarsi dei casi nei quali un dipendente debba dimostrare di essere vittima di vessazioni o di mobbing da parte del proprio superiore, in un caso simile le registrazioni delle conversazioni potrebbero essere utilmente utilizzate quali prove da portare in sede processuale.
Ciononostante, la normativa in tema di protezione dei dati personali impone di trovare un punto di equilibrio tra le esigenze di tutela dei lavoratori ed il rispetto della privacy del soggetto che viene registrato.
Già nel 2003 con il Codice della Privacy (d’ora in poi CdP) il legislatore italiano aveva stabilito la regola generale del “consenso”, secondo la quale il trattamento dei dati personali (nei quali vi rientravano anche la registrazione video e/o audio) risultava lecita esclusivamente nel caso in cui i soggetti interessati avessero preventivamente prestato il proprio consenso. Le norma generale prevedeva alcune limitate deroghe alla necessità del consenso, tra queste vi era il caso in cui la raccolta dei dati personali fosse necessaria “per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria”, sempre che gli stessi fossero “trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento” (art. 24 comma 1 lett. f) CdP).
L’introduzione del GDPR (Regolamento UE 2016/679) ha modificato l’impostazione originaria, questo ha stabilito che è lecita l’acquisizione di dati personali (compresa la registrazione) qualora questa sia necessaria per “l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria”. Il GDPR contiene altresì un articolo che fa specifico riferimento ai rapporti di lavoro: l’art. 88 del Regolamento prevede che gli Stati membri dell’Ue debbano predisporre norme dirette ad “assicurare la protezione dei diritti e delle libertà con riguardo al trattamento dei dati personali dei dipendenti nell’ambito dei rapporti i lavoro, in particolare per finalità di esercizio e godimento, individuale o collettivo, dei diritti e dei vantaggi connessi al lavoro”.
Per il momento non esistono sentenze che abbiano già applicato la nuova normativa europea ma esclusivamente quanto concerne l’applicazione del Codice della Privacy (art. 24) In particolare con la sentenza della Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 3034/2011. Con tale sentenza, la Corte Suprema aveva sottolineato la necessità di “bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio”.
Nel tempo però si sono registrati orientamenti contrapposti all’interno della Corte Suprema. Con la sentenza del 10 maggio 2018 n. 11322, i giudici della suprema corte hanno ritenuto legittimo il comportamento del lavoratore che, nel corso dell’orario di lavoro, aveva registrato delle conversazioni intrattenute con i propri colleghi all’insaputa di quest’ultimi. La Corte aveva pertanto dichiarato illegittimo il licenziamento intimatogli per tale motivo.
Senonché, appena sei giorni dopo, con sentenza del 16 maggio 2018 n. 11999, la Suprema Corte ha confermato la decisione di una Corte di Appello che aveva ritenuto illegittima, per violazione delle regole sul consenso, la condotta del dipendente che anche in tal caso, all’insaputa di un collega e di un proprio superiore, aveva registrato alcune conversazioni al fine di sporgere una querela per un presunto mobbing attuato nei propri confronti.
Con la sentenza n. 12534 del 10 maggio 2019, la Corte di Cassazione è nuovamente tornata sui suoi passi, legittimando il comportamento di un lavoratore che aveva registrato di nascosto i propri colleghi. Nel caso di specie il lavoratore aveva censurato la sentenza di secondo grado per “avere” quest’ultima “ritenuto che le registrazioni effettuate dal lavoratore di colloqui con i colleghi rientrassero tra le condotte non consentite” laddove invece, “alla luce della consolidata giurisprudenza di legittimità, la registrazione di una conversazione all’insaputa dell’interlocutore deve ritenersi legittima e validamente utilizzabile in sede processuale qualora necessaria per tutelare e far valere un diritto in sede giudiziaria“.
Secondo la Corte “l’utilizzo a fini difensivi di registrazione di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e delle tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio”. Pertanto da ciò consegue “che è legittima […] la condotta del lavoratore che abbia effettuato tali registrazioni per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda e per precostituirsi un mezzo di prova, rispondendo la stessa, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto”.
Ovviamente non bisogna pensare che tale pronuncia della Cassazione legittimi tutte le registrazioni effettuate di nascosto, poiché come la stessa Corte ha più volte rimarcato, la verifica della correttezza della condotta di chi registra deve essere sempre valutata caso per caso e non è sufficiente invocare un generico diritto alla difesa del lavoratore per giustificare le registrazioni.